Israele, oggi.
Un regista affermato, Ari Folman, incontra in un bar un vecchio amico, il quale gli rivela un incubo ricorrente che lo tormenta dai tempi della guerra in Libano nei primi anni ’80.
Ascoltando il racconto, Ari si rende conto di aver rimosso pressochè ogni ricordo di quella esperienza, motivo per cui decide di rintracciare tutti coloro che prestarono servizio militare assieme a lui in quel periodo per ritrovare la propria memoria e, soprattutto, il proprio ruolo nel drammatico conflitto che conobbe il suo momento più sanguinoso nel massacro avvenuto nei campi profughi di Sabra e Shatila.
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Vincitore dell’Oscar 2009 come migliore film straniero, “Valzer con Bashir” è una pellicola autobiografica di raro spessore.
La narrazione si configura come una seduta psicanalitica corale, in cui le testimonianze dei personaggi fanno riaffiorare nella mente del protagonista avvenimenti cruciali: i continui flashback si susseguono a volte come visioni oniriche ed abbacinanti, in altri casi come racconti più che mai concreti.
La tecnica dell’animazione risulta pertanto quantomai azzeccata per seguire il filo di un racconto che gioca sul rapporto inscindibile tra la dimensione del sogno e quella materiale, le quali vengono combinate con fluidità fotogramma dopo fotogramma.
Sebbene si svolga in tempi che non possono classificarlo come film “d’azione”, non mancano sequenze concitate, accompagnate da una colonna sonora che alterna pezzi celebri del rock anni ’80 a brani di musica classica.
Tra le sequenze che valgono il prezzo del biglietto: l’immagine di Ari che esce dal mare nella notte illuminata dalle bombe (rettifico: dai fumogeni al fosforo, grazie Danny per la correzione); il sogno di Carmi, sensuale e surreale; il valzer a colpi di mitra di Frenkel, sotto il poster di Bashir Gemayel; una carrellata di azioni belliche descritta con tono scanzonato, a ricordare che forse l’unico modo per esorcizzare l’orrore è sorriderne; e soprattutto il finale del film, non più animato, bensì con filmati reali, a ricordare che forse l’unico modo di non ricadere nell’orrore è soffermarvisi.